Si è concluso ieri sera ad Assemini il tour nell’Isola di Giuliana Sgrena, la nota reporter di guerra rapita in Iraq nel 2005, ospite nei giorni scorsi di Porto Torres e Villagrande Strisaili. L’incontro si inscrive del cartellone dell’Estate Asseminese ed è stato organizzato dal Lìberos, nell’ambito del Festival Éntula, in collaborazione con il sistema bibliotecario Bibliomedia, la Proloco di Assemini, la casa editrice Laterza, la libreria Ubik Mieleamaro di Cagliari e il Festival Liquida.
Accolta dall’Assessora alle Politiche Culturali, Jessica Mostallino, nel suggestivo scenario della Piazza San Giovanni, alla presenza di più di cento di persone, in una lunga conversazione con Andrea Tramonte, Giuliana Sgrena racconta la sua lunga esperienza come inviata di guerra.
Me la sono andata a cercare
Per quasi trent’anni, Giuliana Sgrena è stata inviata speciale nei principali conflitti: dall’Algeria all’Iraq, dalla Somalia all’Afghanistan, dalla Siria all’Eritrea, sempre in prima linea. Quegli anni vengono raccontati nell’opera presentata ieri, “Me la sono andata a cercare”, titolo provocatorio che vuole ribaltare uno stereotipo sessista che tenta costantemente di invertire le responsabilità, confondendo vittime e carnefici. Sì, se l’è andata a cercare Giuliana Sgrena, è andata sempre a cercare la verità, per raccontare il volto più autentico dei regimi autoritari, la negazione della libertà, dei più fondamentali diritti, dando voce a chi non poteva averla, in particolare alle donne.
«Me la sono andata a cercare quando sono stata rapita in Iraq», rivendica Giuliana Sgrena in risposta a chi le rivolge questa accusa da vent’anni, «quest’accusa mi fu rivolta anche da Enzo Biagi che aveva scritto sul Corriera della Sera che, se fossi rimasta a casa a fare la calza, non mi sarebbe successo niente. È vero, ma io avevo deciso di raccontare le guerre: ho corso molti rischi, anche soltanto per raggiungere quei posti e l’ho fatto rivendicando di essermela andata a cercare». Alla domanda che la interroga sulla sua vocazione, risponde di non aver mai concepito il suo lavoro come missione, «lo considero semplicemente un mestiere. Per anni ho mischiato il mio impegno politico e la scrittura, poi nel 1988 sono arrivata e rimasta al Manifesto dove ognuno di noi si occupava di particolari zone geografiche. Quindi era naturale che in quei Paesi partisse chi se ne era sempre occupato e l’ho fatto sempre con grande interesse, nel modo migliore».
Il giornalismo embedded
Non è positivo il suo giudizio sul giornalismo embedded, cioè quello che vede i giornalisti integrati negli eserciti di uno Stato, previo addestramento, con tutte le limitazioni e le mistificazioni che questo comporta. Gli accordi stipulati si traducono, infatti, in una forma di censura, la cosiddetta “militarizzazione dell’informazione”. Il tentativo di raccontare l’esultanza degli iracheni per l’arrivo degli americani è un esempio eclatante di questo tipo di falsificazione: «Io quell’esultanza non l’ho vista e mi sono rifiutata di raccontarla, ciò nonostante, la notizia è circolata in tutto il mondo, ma non era la verità».
Il ricordo di Ilaria Alpi e Maria Grazia Cutuli
Giuliana Sgrena ricorda nel suo libro le collega e amiche Ilaria Alpi, morta a Mogadiscio nel 1994, e Maria Grazia Cutuli, morta in Afghanistan nel 2001, due vicende mai chiarite, due verità negate: «Per la morte di Ilaria, è rimasta la versione di comodo che sostiene la tesi della morte per uno scoop, sostenuta da giornalisti che non erano mai stati in Somalia. Di questo scoop non esiste la minima prova».
Il sequestro
C’è una terza verità negata, quella legata al sequestro di Giuliana Sgrena a Falluja nel 2005, con il tragico epilogo della morte di Nicola Calipari, ucciso dal “fuoco amico” mentre, dopo averla liberata, la scortava verso l’aeroporto per riportarla in Italia. Esprime delusione, come pacifista, per essere stata utilizzata come arma di guerra, nonostante il grande lavoro di restituzione della verità per dare voce a quel popolo in lotta. «Volevano che chiedessi a Berlusconi il ritiro delle truppe dall’Iraq. Cercavo di far capire loro che era più importante fare appello a chi era contro la guerra, non solo al governo».
All’interno dei Servizi italiani vi era una componente a favore della trattativa che è fortunatamente prevalsa. Il momento della liberazione è confuso, sono minuti durissimi, racconta Giuliana Sgrena fortemente convinta che sarebbe stata uccisa per aver sempre visto in volto i suoi rapitori. Poi la voce rassicurante di Nicola Calipari: «Ero sotto shock, e proprio nel momento in cui mi sembrava di realizzare sono arrivati gli spari. Ho sentito il suo corpo che si appesantiva sul mio. Sentire una persona che ti muore addosso è una cosa che non potrai mai dimenticare. Non ho mai potuto essere contenta di essere libera: il 4 marzo per me non è il giorno della mia liberazione ma quello della morte di Nicola Calipari».
Il giornalismo come servizio
“Me la sono andata a cercare” è un libro-testamento, che testimonia la responsabilità morale di chi ha scelto di esserci sempre, esponendosi consapevolmente al pericolo, sì, per provare a restituire la versione più autentica possibile dei fatti. Quello di Giuliana Sgrena è un giornalismo inteso come servizio, raccontare è in fondo una forma di resistenza.